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Rassegna stampa - Sisma centro Italia 2016 | 08-06-2017 |
CHE ci fa una yurta mongola
sulla linea di faglia appenninica, dopo ottanta chilometri di rovine a partire
da Amatrice? Chi abita quella tenda per nomadi dal comignolo fumante ai piedi
dei Sibillini ancora segnati da lingue di neve? È la casa di un uomo che ha
deciso di restare aggrappato ai pascoli di famiglia, sulle montagne di Visso,
cittadina sventrata dal sisma, nonostante la sua fattoria sia ancora
inagibile. Uno che ha scelto di ripetere una storia antica, quella dei popoli
scesi in Italia migliaia di anni fa dall'Asia centrale con animali e sementi.
Una storia nuova, allo stesso tempo. Una formula leggera di resistenza al
Globale, alle burocrazie, all'abbandono delle periferie, al terremoto. Un segno
esemplare di rinascita, dopo la grande fuga che ha desertificato il cuore
d'Italia. Un faro sulla ricostruzione Marco, il pastore nella yurta che ha battuto il terremoto Monti incappucciati e prime stelle sopra la chiesa solitaria della Madonna di Macereto, capolavoro di un'Italia minore. Le pecore sciamano verso la mungitura e intanto, in un recinto, un reggimento di asine si prepara alla notte. Il guardiano dell'arca racconta, accanto alla stufa. "A novembre siamo stati fermi un mese, ma abbiamo superato il brutto momento grazie alla solidarietà natalizia che ci ha consentito di vendere molto formaggio. È stato allora che un cliente lombardo ci ha suggerito l'idea della yurta. Una ditta olandese ce l'ha installata gratuitamente. Poi è arrivata la grande nevicata che ha rischiato di far crollare tutto ma, spalando di buona lena, ne siamo usciti". Sotto i nostri piedi, in una ex cisterna, forme di pecorino a montagne maturano su scaffali da biblioteca."Qui niente conservanti, niente prodotti di sintesi. Siamo nel biologico da 22 anni, il nostro formaggio è presidio Slow Food. Certo, il terremoto ci ha messo i bastoni tra le ruote, ma la commercializzazione non si è interrotta e il grado di sicurezza sanitaria non è mai sceso". Anche la tosatura, quassù, non si affida a frettolosi mercenari ma viene fatta dai locali, dolcemente e al momento giusto. Un miracolo, in un paesaggio lunare di crolli, abbandoni, lupi e incursioni distruttive di cinghiali. La transumanza è quasi sparita, ma la famiglia Scolastici continua a lavorare tra montagna e pianura. Quella sui Sibillini è solo metà dell'azienda. Il resto è a Tarquinia, dove la produzione è in mano al fratello di Marco: dai pascoli di quota il profumo delle erbe aromatiche e dalle praterie tirreniche la sapidità di un foraggio robusto. "Ho la fortuna di avere alle spalle un'azienda strutturata. Ma qui le condizioni sono proibitive per chi vuole partire da zero". Marco è consapevole che sull'Appennino si sta giocando una partita più importante del terremoto. Qualcosa che richiede un'alzata d'ingegno per frenare lo spopolamento prima che diventi irreversibile, una formula nuova di uso del territorio, ripartendo dalle strade minori, dai sentieri, dalle costruzioni in legno, dalle tende e dalle stalle, perché in assenza di animali nemmeno gli uomini ritornano in questa terra millenaria di pastori. Una sfida disperata, perché - si sa - le pecore come le vacche non votano, e la politica snobba le terre disabitate finché non si svegliano con frane e alluvioni. La ricostruzione non riparte, i campeggi di emergenza - come a Ussita, sopra Visso - sono stati chiusi da giudici troppo fiscali, le macerie restano pattugliate da uomini in divisa, l'apertura di spacci alimentari è impedita da tignosi burocrati, gran parte delle stalle sono ancora da rifare, i veterinari disertano la montagna perché guadagnano meglio con cani e gatti in città. Ma soprattutto le strade comunali restano chiuse. A Cellino Attanasio, in provincia di Teramo, la comunale 42 è bloccata già da prima del terremoto e il divieto strangola aziende agricole e di agriturismo che hanno investito tutto per restare. L'ente locale è in bolletta, impossibilitato a spendere per via del patto di stabilità. In queste condizioni il rischio è che l'Appennino, anziché oasi di biodiversità, diventi discarica, nostalgia di una terra perduta anziché opportunità. "Così, anche i forti potrebbero mollare", lamenta Patrizia Vita, che ha avuto la casa distrutta a Ussita. E intanto, fuori dalla yurta, sui monti della Sibilla scende una notte buia da eremiti. |
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